Filastrocca delle mamme
Le mamme son tante e son tutte diverse, come un bouquet di fiori del mondo...
c’è la mamma che fa la pasta
e ce n’è una con la lancia in resta
c’è chi a casa si dà da fare
e chi sempre va a lavorare
c’è chi in pancia ci ha portati
e chi ci ha accolti dopo che siam nati
c’è chi è pimpante e chi non ce la fa
ma tra sonno e sbadigli resta pur là
Le mamme son tante e son tutte diverse, come matite dentro l’astuccio
c’è chi è felice di sfornare il pane
chi ha studiato e chi vuol studiare
chi scappa in banca mentre il papà
a casa cucina un buon baccalà
chi scrive, chi strilla, chi fa la cantante
chi recita versi con aria importante
chi recita versi con aria importante
chi fa l’infermiera e non torna la sera
chi l’appuntato dei carabinieri
chi l'astronauta che solca i cieli
chi l'astronauta che solca i cieli
(lavori che mamma non poteva far ieri)
la prof che lavora fuori regione
e gli abbracci rimanda alla prima occasione
Le mamme son tante e son tutte diverse, ma ci son le cose che vi rendono uguali:
che i vostri baci guariscon ferite,
col vostro pensiero voi ci seguite,
che non siete mai sazie di abbracci e risate,
che di pazienza vi siete armate
ma soprattutto - e vi dirò di più –
che sotto un cielo che è sempre più blu
mamma, per me, la più bella sei tu.
Rosanna Caccavo
Rosanna Caccavo
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PANE
di Arianna Egle Ventre
Ho comprato il detersivo, quello costoso, ma comunque non va via. Ho comprato anche la spugna adatta, ma quella maledetta pentola non si vuole scrostare. Nell'acqua nera galleggiano pezzetti di bruciato, per quanto continui a grattare, nulla da fare. La radio mi fa da sottofondo. E' da giorni che dicono sempre le stesse cose, ma non so perché ora i pezzetti di riso bruciato mi ricordano proprio questi immigrati di cui parla tanto la radio. Di questa nave..
Mio marito dice che non devo ascoltare informazioni alla radio, buona soltanto a farli apparire come poveri martiri. Dice che gli sta bene, stanno a non venire qua.
Domani devo comprare il pane, quello di ieri è secco.
Oggi sono andata dal fornaio e c'era uno come loro, nero, che mi guardava con occhi proprio da povero martire; mi ha chiesto dei soldi, ma io non gliel'ho dati. Domani, forse.
Devo tornare a comprare il pane. Prima però devo spazzare e preparare il pranzo a mio marito che sennò si offende e dice che si va a cercare una donna più bella. Beh, si, scherza, però io intanto questa pasta gliela cucino. La radio racconta ancora di loro ed è strano perché ci sto pensando tanto in questi giorni. C'era della polvere sotto le sedie e ho pensato - proprio come quei migranti là, è lì da giorni e non me ne ero accorta.
Devo andare a prendere il pane. Ieri gli ho lasciato un euro al ragazzo del forno, ma non l'ho detto a mio marito, si sarebbe arrabbiato. Mi ha ringraziato, aveva proprio un bel sorriso.
Oggi ci ho parlato, si chiama Angel, non so bene come si pronunci. Mi ha sorriso di nuovo, ma ho paura che qualcuno mi veda mentre gli parlo e pensi qualcosa di strano. Continuo a bruciare un sacco di cose in cucina, non mi era mai successo, deve essere per colpa di quella stupida radio che mi distrae. L'altro giorno la ascoltavo e mi sembrava un film di quelli drammatici, tanta era la voglia che avevo di piangere. Hanno raccontato la storia di un ragazzo di ventidue anni ed ero proprio triste. Ho pensato ad Angel. Ho provato a raccontarlo a mio marito a cena, ma si è arrabbiato tantissimo e mi ha tirato uno schiaffo dicendomi che di politica io non me ne devo fregare, non mi riguarda. E' finito il pane.
Angel mi ha chiesto come sto. Non gli avevo dato soldi.
Mio marito non me lo chiede mai.
Stanotte ho sognato la pentola da pulire e anche quei poveracci lì, di cui parla la radio. Affogavano in mezzo al detersivo,ma io continuavo a pulire mentre mio marito rideva.
Non ho ben capito, forse oggi li hanno fatti sbarcare. E' che io di queste cose non ci capisco nulla. Non so perché li tenessero lì in mare, però so perché non li vogliono, mio marito me lo spiega di continuo. Non so, non so davvero, continuo a sognarli e mi sento sempre un po' triste. Perché in fondo, non capisco, se vengono qua un motivo forse ce l'hanno. Mi ricordo che io quando avevo ventidue anni avevo paura all'idea di buttarmi sola nel grande mondo, volevo trovare in fretta un marito, perché vivere da sola...no che non ci volevo vivere da sola. Quindi, non lo so eh, non me ne intendo, ma forse, poverini, devono soffrire proprio tanto. Uh, il pane.
Oggi Angel era un po' giù, mi ha sorriso, come al solito, ma l'ho visto che era triste. Ho deciso di preparargli una torta. Torno a casa.
Mio marito è appena tornato a casa. Hai cucinato una torta. No, perché lo dici. Sei sporca di farina e quelle teglie, dov'è, ho fame, la voglio assaggiare. Scusami, l'ho regalata. A chi. Alla vicina. Non ti credo. Perché no. Vedo quando menti, sei una fifona. Chiediglielo. Vado.
Ma la vicina non sa stare al gioco, cazzo. E torna, rosso di rabbia, mi urla, ha le orecchie tappate, mi dice che ho un amante, ma gli dico che no, che dici, era per Angel il ragazzo africano che sta sempre davanti al forno. Perché cazzo non so mentire. Te la fai con i negri e, no, no! gli dico, ma non sente più nulla e mi tira uno schiaffo e ho paura e svengo e sogno, sogno Angel nel mare insieme a tanti altri. Tutti che mi urlano, ma le voci non sono voci umane, sono come la voce della radio, proprio quella e io sono seduta su una grande pagnotta di pane galleggiante e non posso fare nulla, mio marito mi tiene ferma e io non mi oppongo e Angel mi guarda e mi chiede: come stai?
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Libri per conoscere, libri per pensare, per crescere, anche libri da leggere con i ragazzi, in biblioteca, a casa o a scuola.
4 LIBRI PER AVVICINARSI
AL TEMA DEL FEMMINISMO ISLAMICO
A cura di Luisa Costalbano
Il Femminismo islamico è
un movimento che si basa sulla rilettura del Corano, da una prospettiva femminile
e che afferma l’uguaglianza di genere, proponendo la riforma di leggi ed
istituzioni patriarcali in nome dell’islam. Trascendendo le categorie di
Occidente ed Oriente, questo movimento è al tempo stesso locale e globale:
poiché esso si è diffuso tra le donne che vivono sia nei paesi a maggioranza
musulmana, sia in quelli della diaspora. Emerso tra la fine degli anni ‘80 ed inizi
dei ‘90, l’effettiva portata del movimento deve prendere in considerazione le
diverse realtà nazionali che si sono rese protagoniste.
I percorsi che portano
all’emancipazione femminile si caratterizzano per un comune distacco dal modello
universalista del femminismo occidentale, realizzandosi attraverso
l’accettazione e la reinterpretazione della propria tradizione culturale.
Il femminismo islamico
non si presenta però come un movimento omogeneo: una diversa critica di genere
della storia e della tradizione islamica viene affrontata a seconda del
contesto regionale e del posizionamento politico, dato che le femministe
ritengono sia necessario fare riferimento alle condizioni delle donne in
contesti nazionali specifici e alle differenze di ceto ed ambiente. In ogni caso,
però, la centralità dell’islam non significa un ritorno al passato: essa è una
reinvenzione individuale e collettiva che fa i conti con le esigenze della
società del XXI secolo, il miglioramento della condizione femminile passa per
una piena affermazione dei diritti civili, economici, politici e sociali di
tutti i cittadini senza distinzioni di genere.
Il femminismo islamico
si ritrova impegnato su due fronti: contrastare costumi e tradizioni misogine delle
società musulmane e scardinare gli stereotipi occidentali che vedono l’islam
come principale causa della subordinazione femminile. Affermano cioè la
necessità di sfatare la retorica coloniale e missionaria che vede le donne
musulmane come soggetti da salvare (con un atteggiamento di superiorità che
implica prevaricazioni), quanto piuttosto cercare di lavorare insieme a loro,
riconoscendo le responsabilità dell’Occidente nella costruzione delle
ingiustizie globali. La religione in questa prospettiva va vista come strumento
di liberazione e non come ostacolo all’emancipazione femminile: liberazione
delle donne e riforma dell’islam sono elementi inscindibili di un processo che
coinvolge donne e uomini musulmani.
Chahrazad
non è marocchina, Fatima Mernissi, ed Sonda, Milano,
1993
“L’arabo soggiogato, umiliato, disprezzato, subirà una metamorfosi e
diverrà persona sovrana in grado di esercitare la sua sovranità, il giorno in
cui sarà allattato da una madre sovrana. E la sovranità dell’individuo passa
attraverso l’accesso al sapere valorizzante”.
Con questa
affermazione Fatima
Mernissi ci catapulta
nel nucleo centrale di questo suo lavoro, pubblicato in Italia da Edizioni Sonda nel 1993. “Chahrazad non è marocchina” è un saggio attraverso il
quale la studiosa magrebina analizza
il problema della scolarizzazione femminile, delle enormi difficoltà di accesso al sapere che vivono le donne del suo paese e,
in generale dell’area culturale araba e di come quella stessa area geografica
potrebbe avere un diverso e maggiore grado di sviluppo se solo fosse aperta
alla scolarizzazione femminile. E lo fa con il suo inconfondibile stile,
graffiante e irriverente, ma anche minuziosamente scientifico.
L’idea geniale cui fa
ricorso la Mernissi nell’impostazione di
questo suo lavoro, è quella
di ricondurre l’analisi del problema alle note vicende della protagonista de
“Le mille e una notte”, quella Chahrazad che notte dopo notte riesce a
posticipare il suo assassinio utilizzando lo strumento della parola e dunque
della sua preparazione, del suo bagaglio culturale.
“Per me, signore, leggere e scrivere non sono
soltanto un passatempo; è una questione di sopravvivenza e al tempo stesso un
piacere proibito per secoli ai dominati, ai poveri, alle donne e ai contadini”.
La tesi espressa dalla
Mernissi è che esiste un rapporto molto stretto fra le donne con il sapere e, inevitabilmente, con il potere. Quanto più le
donne riescono ad accedere all’istruzione, al sapere valorizzante, tanto più si
compie la loro emancipazione da una situazione familiare di sottomissione, fino
ad arrivare ad una piena partecipazione alla vita pubblica della nazione.
La storia della principessa
Chahrazad diventa quindi metafora della figura del sottomesso, dominato, perdente, che con la forza della parola,
inanellando le parole come perle di una collana, riesce a soggiogare il proprio
carnefice e a conquistare la
libertà (ovvero la sopravvivenza nel caso della storia narrata ne
“Le mille e una notte”). Ma come è
possibile che Chahrazad, una donna, riesca in questo arduo compito? Può
riuscirci perché lei è un’aristocratica che ha trascorso la sua infanzia e
adolescenza a leggere, ad accumulare informazioni, nozioni, che le daranno gli
elementi per inventare notte dopo notte, mille e una storia.
“Secondo me – prosegue la Mernissi – il fattore chiave delle diseguaglianze di
classe, quello che con maggior attenzione deve essere analizzato da coloro che
riflettono seriamente su di un avvenire migliore e su una prosperità più
equamente condivisa, è l’accesso delle donne al sapere e al salario”.
L’accesso delle donne al
mondo dell’istruzione è un elemento chiave sia
per l’evoluzione delle classi meno abbienti, con la possibilità di percepire un
altro salario nel momento in cui la donna istruita o quanto meno formata riesce
ad entrare nel mondo del lavoro, sia delle classi più socialmente elevate,
quella borghesia che potrà vantare figli e figlie nei settori in vista della
carriera professionale.
Fatima Mernissi, (Fès, 1940 – Rabat, 30 novembre
2015), è stata una scrittrice e sociologa marocchina. Nata a Fez, città del
Marocco settentrionale durante il periodo di protettorato francese, Fatima
trascorse la sua giovinezza nell’harem di famiglia appartenente alla borghesia
cittadina. Completati gli studi in Marocco si trasferì prima in Francia e successivamente
negli Stati Uniti dove ottenne un dottorato di ricerca in sociologia alla
Brandens University nel 1974.
L’immaginazione
e la fantasia diventano uno strumento di resistenza e di elusione di regole e
istituzioni, nella cornice spazio-temporale e relazionale della quotidianità,
attraverso la rievocazione di mondi altri e di donne. Dalle donne immaginate e
evocate si passerà alle donne studiate, oggetto delle sue ricerche, a partire
da quella di dottorato, condensata nel libro Beyond the Veil: Male-Female
Dynamics in the Modern Society. Di ritorno dagli Stati Uniti, Fatima iniziò la
sua attività accademica all’università Mohammed V di Rabat e proseguì i suoi
studi e le sue ricerche nel solco tracciato. A questa prima prospettiva farà
seguito un suo spostamento e ri-posizionamento all’interno di quello che viene
definito femminismo islamico.
Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme. Renata Pepicelli, Carocci ed., Roma, 2010
Il libro racconta la nascita e l’affermazione del
femminismo islamico, e parallelamente descrive lo sviluppo di un crescente
attivismo femminile all’interno dei movimenti islamisti. Ciò che emerge è il ritratto
di un mondo musulmano variegato e in trasformazione, che smentisce molti
stereotipi diffusi in Occidente.
L’opera, introdotta dalle riflessioni delle studiose Isabella
Camera d’Afflitto e Margot Badran, si articola in cinque capitoli I: «Il movimento
femminista nel mondo arabo tra XIX e XX secolo» II: «L’affermarsi del
femminismo islamico». III: «Teologia femminista». IV: «Jihad al femminile». V:
«Le islamistiche».
“Esiste un femminismo islamico, una teologia femminista
islamica, una lettura coranica con occhi di donna. Queste tre affermazioni
mettono a nudo tutta la nostra ignoranza sul tema “Donne e Islam” e l’assoluta
adesione all’informazione mainstream, spesso pregiudiziale, che presenta in
modo monolitico la complessa e differenziata realtà islamica nel mondo. Il
femminismo non è una prerogativa dell’Occidente; si colgono profonde
similitudini tra la ricerca delle donne e teologhe cattoliche nel reinterpretare
la Bibbia e sgrossarla dalla cultura patriarcale che le ha escluse per secoli,
e la fatica ermeneutica e culturale delle donne islamiche nel riappropriarsi
del Corano in una chiave femminile.” (Patrizia Morgante)
Renata
Pepicelli è titolare dal 2008 di un assegno di ricerca presso il
dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia della Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Bologna. Dottore di ricerca in “Geopolitica e
culture del Mediterraneo” presso il Sum, Istituto Italiano di Scienze Umane / Università
Federico II di Napoli (2008). Attualmente è cultore della materia in Storia e
istituzioni dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Roma3 e collabora a ricerche nazionali e internazionali con
l’università di Bologna, lo IAI (Istituto Affari Internazionale) e l’Istituto
di studi politici San PIO V. È membro della redazione della rivista “Jura
Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica
globale”. Ha scritto anche “Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica”,
Roma, Carocci, 2012.
Le donne velate dell'Islam,
Hinde Taarji, Essedue Edizioni, 1992
Indagine
sul mondo femminile mussulmano: descrizione delle esperienze di vita sociale e
religiosa di donne incontrate dall'autrice. Viaggio in Egitto, Emirati Arabi
Uniti, Kuwait, Libano e Algeria alla ricerca dei motivi che hanno spinto tante
giovani donne arabe a riaccettare il velo di cui le loro madri si erano
coraggiosamente liberate. Per superare l'abusata icona pregiudiziale della
donna musulmana associata al velo e alla miseria intellettuale, in altri termini
alla non-modernità, questo testo permette di attualizzare lo sguardo posato
sulle donne in terra di islam. Inchiesta giornalistica, con interviste, che
percorre gran parte dei paesi arabi proprio per domandare alle donne il perché
del loro indossare l'hijab.
Hinde
Taarji, nel suo libro, ci racconta ad esempio il suo incontro con la
caporedattrice di "Anaka ua hishma" (Finezza e Pudore), una vera e
propria rivista di moda per muhadjdjabah (donne velate). "La funzione
dell'hijab - domanda l'autrice - non è quella di permettere alla donna di
muoversi con discrezione e di attenuare la sua naturale bellezza?” Risponde
Kariman, la creatrice della linea e della rivista “La bellezza non è prescritta
nell'Islam; è 'el fitna' che è condannabile. 'El fitna' è il turbamento
provocato in un uomo dalla vista dell' "awra" della donna. L' 'awra'
è tutto ciò che sveglia il suo desiderio sessuale. Il corpo femminile è
considerato 'awra'. Si ritiene, per esempio, che i capelli siano elementi di
'fitna'. Ma una volta che la parte 'awra' è nascosta, niente impedisce a una
donna di essere bella perché l'Islam non le chiede di diventare una monaca. Non
c'è rigidità nell'Islam."
Riportiamo,
sempre dal testo, parte dell'intervista fatta a Samira, una giovane donna
Muhadjdjabah, ovvero velata, che aderisce al movimento islamico sciita degli
›izballah (Partito di Dio) in Libano: "All'inizio, le donne erano
perplesse nei confronti dell'hijab perché temevano di sembrare delle creature
timide e timorate. Invece si produce proprio l'effetto contrario. La mussulmana
"multazima" [impegnata] con l'hijab si libera della paura ed è perciò
più forte di quella che non lo porta. Noi siamo tutte istruite - continua con
fierezza - siamo entrate all'università armate della nostra convinzione.
Adesso, a differenza del passato, difendiamo con forza le nostre opinioni. Un
tempo la donna non si esprimeva perché era oppressa dalla Tradizione, non
dall'Islam. Il padre, con il pretesto della religione, obbligava la figlia a
restare in casa. L'Islam non ha mai voluto questo. Grazie all'Islam la donna ha
avuto la possibilità di scendere in strada. Sayeda Kadija, la prima moglie del
Profeta, non si recava forse al mercato per trattare gli affari? Le donne evitavano
l'Islam perché lo credevano responsabile della tirannia del padre, del
fratello, del marito. Il giorno in cui hanno capito che invece le liberava, lo
hanno accettato.”
Hinde Taarji, marocchina e mussulmana, vive a
Casablanca. Giornalista e scrittrice, ha iniziato la sua carriera partecipando
all'avventura di “Kalima”, emblematica rivista degli anni 80. Membro fondatore
di questa rivista mensile d'avanguardia che segna il panorama dei media
marocchini con il suo tono sovversivo e il suo trattamento dei tabù sociali È
caporedattore fino alla fine della pubblicazione, soffocata da ripetute
censure. Il suo gusto per i viaggi e le indagini sul campo l'ha portata a
viaggiare in un gran numero di paesi arabi, impegnando numerosi libri su
argomenti diversi come il velo, la Palestina o gli anni neri algerini. È anche
interessata alla questione della migrazione, condirettore della Fondazione
Hassan II per i marocchini che vivono all'estero uno "stato di
immigrazione" dedicato alla diaspora marocchina all'estero. È anche
regista di documentari per il canale marocchino 2M. Ed è stata, per quasi due
decenni, editorialista del settimanale La Vie Eco. Dal 2008 gestisce il sito
web dimablada.ma, un portale online per marocchini di tutto il mondo che ha
creato per la Fondazione Banque Populaire.
Nel
cuore della notte algerina, Assia Djebar, Giunti
ed, Firenze, 1998
Sviluppato
in due parti e sette racconti, il volume ruota attorno a figure femminili di diverse
età ed estrazioni sociali. Spesso sono le protagoniste a parlare in prima
persona, altre volte sono parenti e conoscenti a raccontare per loro.
Direttamente o meno, ogni vicenda è legata ai fatti accaduti nei decenni fra
gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso in Francia e Algeria. Conflitti
armati, attentati sanguinosi che coinvolgono anche civili, formazioni
terroristiche e contestazione politica aprono una finestra su un periodo
storico che forse, per noi italiani, non è stato ancora approfondito a
sufficienza. Assia Djebar vuole fare proprio questo: offrire un ricordo di
tutti quegli uomini e donne che hanno pagato la difesa di un ideale a prezzo
del proprio sangue o di quello di coloro che amavano. C’è molto dolore in
queste pagine, ma anche molta dignità e, nonostante ne emerga una critica verso
alcuni aspetti del mondo islamico, c’è anche tanto amore per l’Algeria.
Attraverso una narrazione sensuale, a tratti onirica e vicina alla fiaba,
l’autrice travolge il lettore e lo immerge in odori, colori, accezioni
linguistiche e religiose proprie del mondo algerino. Un folgorante affresco
delle ''nuove donne d'Algeria'' nelle più recenti vicende di esilio e di
eroismo, di speranza e di violenza.
Assia
Djebar racconta di donne e uomini che vivono in costante pericolo, in
clandestinità, in lutto, ma continuano a resistere contro le mutilazioni dei
corpi e dei pensieri, contro la cancellazione delle voci presenti e passate. Una
delle narratrici, ancora bambina, ha sacrificato alla guerra ciò che di più
caro aveva al mondo: la madre e il padre. Cresciuta dalla zia materna,
ripercorre con il viaggio e con la scrittura il “vuoto in una lingua muta” che
Orano, città natale, ha lasciato in lei… anche Wardya sa bene quanto sia
difficile essere donna, avere vent’anni e vedersi improvvisamente privati della
libertà per non disonorare il buon nome paterno… e poi ancora Isma che vive la
sua giovinezza in clandestinità, nel terrore di essere trovata e uccisa, ma che
suo malgrado non riesce a sfuggire all’amore… lo sa bene anche Atika,
professoressa di francese ad Algeri: appassionata di letteratura e politica,
analizza con gli alunni alcuni brani tratti da Le mille e una notte e diventa
lei stessa una moderna Sherazad…
Il
femminismo di Assia Djebar è difficilmente classificabile e si sottrae a
definizioni militanti o ideologiche. È piuttosto un impegno a distanza che mai
confonde la solidarietà, la sorellanza, con l’identità. Un femminismo che non
cade nella trappola dell’ergersi a portavoce delle altre; tutt’al più scrive
per coloro che sono escluse dalla scrittura.
Assia Djebar: La vita di questa grande scrittrice e
cineasta algerina non è scindibile dai destini del suo tormentato paese. Assia
Djebar nasce nel 1936 a Cherchell, una piccola città costiera situata a circa
80 km da Algeri, da una famiglia appartenente alla piccola borghesia algerina. La
madre, discendente fiera di una famiglia aristocratica berbera, trasmette alla
figlia un vasto patrimonio delle tradizioni, legato alla trasmissione orale,
per via genealogica femminile. E Assia, già da piccola, è ben consapevole del
privilegio di cui gode rispetto alle ragazze della sua età, chiuse in casa e
velate a partire dalla pubertà. Dopo gli anni del collegio in Algeria, Assia
frequenta il liceo Fénélon a Parigi e sarà la prima donna algerina ammessa
all’École Normale Supérieure a Sèvres. Ma le vicende del suo paese interrompono
un percorso che sembrava prefigurarsi lineare: la guerra di liberazione degli
algerini contro il regime coloniale francese inizia nel 1954. Assia partecipa
allo sciopero generale degli studenti algerini nel 1956; a solo vent’anni
pubblica il suo primo romanzo La Soif, e abbandona la Scuola prestigiosa per
seguire il fidanzato, militante dell’FLN, nella clandestinità. Dopo
l’Indipendenza dell’Algeria, Assia Djebar ricopre la cattedra di Storia moderna
e contemporanea dell’Africa del Nord all’università di Algeri. Nei decenni
successivi Assia, che si definisce “femme en marche”, donna nomade; dagli anni
Sessanta fino ai primi anni Novanta, fino all’inizio della guerra civile in
Algeria, Assia Djebar vive e lavora a periodi alterni fra Algeri e Parigi. A
partire dal 2001, dividendosi tra Francia e Stati Uniti, insegna nel
Dipartimento di studi francese dell’università di New York, abbandonando la
cattedra che aveva precedentemente occupato alla Lousiana State University dal
1995. Muore il 6 febbraio 2015, a Parigi, all'età di 78 anni.
Segnalo infine un articolo
interessante, un sito da consultare e una tesi di laurea sul tema, consapevole
che questa scelta di libri non è assolutamente esaustiva del tema.
Il movimento femminista in Arabia
Saudita
Il corpo velato: http://www.donnamed.unina.it/velo.php
I femminismi nel Maghreb fra paradigmi
e prospettive di emancipazione femminile, Chiara Nardelli
4 LIBRI X CAPIRE LA PALESTINA E LA QUESTIONE PALESTINESE
A cura di Luisa Costalbano
1) Edward Said: LA QUESTIONE PALESTINESE, 2002 Feltrinelli.
2) Ilan Pappé, LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA, 2008 Fazi editore.
«Ilan Pappe è forse il più anticonformista degli israeliani, che
conduce una battaglia radicale contro l’establishment politico e accademico di
Israele» (Mario Vargas Llosa). Nel 1948 nacque lo Stato d’Israele. Ma nel 1948
ebbe luogo anche la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la cacciata di più di un
milione di palestinesi dalla loro terra. La vulgata israeliana ha sempre
narrato che in quell’anno, allo scadere del Mandato britannico in Palestina, le
Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due Stati: il
movimento sionista era d’accordo, ma il mondo arabo si oppose; per questo,
entrò in guerra con Israele e convince i palestinesi ad abbandonare i territori
– nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di facilitare
l’ingresso delle truppe arabe. La tragedia dei rifugiati palestinesi, di
conseguenza, non sarebbe direttamente imputabile a Israele. Ilan Pappe,
ricercatore appartenente alla corrente dei New Historians israeliani, ha
studiato a lungo la documentazione (compresi gli archivi militari desecretati
nel 1988) esistente su questo punto cruciale della storia del suo paese,
giungendo a una visione chiara di quanto era accaduto nel ’48 drammaticamente
in contrasto con la versione tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli
anni Trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele (in particolare sotto la
direzione del padre del sionismo, David Ben Gurion) aveva ideato e programmato
in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina. Ciò comporta,
secondo l’autore, enormi implicazioni di natura morale e politica, perché
definire pulizia etnica quello che Israele fece nel ’48 significa accusare lo
Stato d’Israele di un crimine. E nel linguaggio giuridico internazionale, la
pulizia etnica è un crimine contro l’umanità. Per questo, secondo Pappe, il
processo di pace si potrà avviare solo dopo che gli israeliani e l’opinione
pubblica mondiale avranno ammesso questo “peccato originale”.
Un classico di sorprendente attualità, che continua a offrire elementi di riflessione e ci aiuta a cogliere in profondità le ragioni storiche di ciò che oggi sta accadendo in Palestina. Said ricostruisce i fatti dal punto di vista palestinese – e non genericamente arabo o islamico – a partire dagli inizi dell’intera vicenda: la nascita del movimento sionista, l’affermazione della sua ideologia nel contesto della cultura colonialista europea, l’avvio del fenomeno migratorio verso la Palestina. In parallelo traccia la storia del popolo palestinese, presentandone un accurato profilo demografico e sociologico. Molti sono i collegamenti e le affinità tra la storia degli arabi e quella dei palestinesi, così come si sono definiti nel secolo scorso. Ma l’incontro traumatico con l’occupazione israeliana ha reso unica la storia dei palestinesi. L’unicità di questa storia e di questo popolo, con le sue vite vissute, le sue tante sofferenze e le sue profonde aspirazioni, è messa a fuoco e analizzata in “La questione palestinese”. La storia nazionale palestinese testimonia uno scontro perdente tra un’ambiziosa ideologia, fondamentalmente europea, e l’incapacità di convincere l’Occidente della giustezza della causa anticolonialista araba. Eppure, nonostante questo tragico fallimento, nonostante i palestinesi siano stati dispersi, frazionati, espropriati dei loro territori, essi hanno saputo sviluppare una sorprendente capacità di resistenza e, soprattutto, dare vita alla loro specifica identità di popolo. A partire dalla realtà storica del suo popolo, Edward W. Said in questo libro mette crudamente alla prova l’infondatezza delle gabbie interpretative già criticate in “Orientalismo”, fornendo la definizione più esauriente e illuminante della questione palestinese.
2) Ilan Pappé, LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA, 2008 Fazi editore.
3) Enrico Bartolomei, Diana
Carminati e Alfredo Tradardi: GAZA E L’INDUSTRIA ISRAELIANA DELLA VIOLENZA,
2015 Edizioni Derive e Approdi.
Un libro fondamentale per comprendere nella sua dimensione il
significato della occupazione sionista, e che offre, nel percorso storico e
nell’analisi politico- sociale, una visione accurata di quella che gli autori
definiscono vera e propria “industria della violenza” israeliana in tutta la
Palestina (fuori e dentro i confini del 48 e poi del
’67 e dai successivi furti di terra) e nella Striscia di Gaza in particolare. Identificando nel concetto e nella realtà della violenza il
“nucleo costitutivo” dell’essenza di Israele, il saggio analizza nei suoi 11
capitoli come essa si sostanzi in alcune dimensioni chiave:
- la violenza del “colonialismo di insediamento”, categoria
politica di recente evidenziata da Pappé, attuato fin dalla nascita di Israele
nel ‘47 e perpetrato oggi con il sostegno dell’Occidente e delle monarchie
arabe;
- la violenza insita nel cosiddetto ‘processo di pace’ culminato
negli accordi di Oslo e nel collaborazionismo della Autorità Nazionale
Palestinese, connivente con l’occupazione e nel contempo strangolata dai
ricatti economici di Israele;
- la violenza economica contro i palestinesi, sia in Cisgiordania
sia nella Striscia, attuata non soltanto con il blocco illegale ma anche ad
esempio con il “razionamento alimentare” che mantiene funzionalmente la
popolazione gazawi appena sopra il livello minimo di sopravvivenza;
- la violenza genocidaria delle operazioni militari scatenate dal
2004 su Gaza e culminate con Margine Protettivo dell’estate 2014;
- la “violenza concentrazionaria” israeliana, fondata sul
‘paradigma carcerario’ che si evidenzia nel sistema di controllo e confinamento
dei palestinesi in Israele, nel modello carcerario in Cisgiordania e nella
Striscia come enorme campo di concentramento, negli insediamenti-fortezza delle
colonie;
- la violenza del sistema israeliano dell’industria militare e
della sicurezza, in cui Gaza è laboratorio di sperimentazione
bellica di nuove armi;
- infine la violenza della ricostruzione, che mette in luce
l’industria degli aiuti e la politica della dipendenza, in cui l’ONU si fa
“tutore dell’assedio”.
4) Vittorio Arrigoni: GAZA.
RESTIAMO UMANI. 2009 Manifestolibri.
L’Esperienza di Vittorio Arrigoni, un uomo che ha scritto
dell'operazione PIOMBO FUSO, non dalla scrivania di un comodo ufficio delle
nostre tranquille città "occidentali" ma direttamente da Gaza.
Stralci di una guerra assurda, assurda come tutte le guerre. Atrocità che solo
chi è in prima linea può vedere e probabilmente MAI dimenticare. La
testimonianza di Vittorio è cruda, diretta, senza fronzoli, con riflessioni e
commenti riguardanti le criticità che attanagliano quella zona ormai da
decenni. "Stay human" o "restiamo umani", è la frase che
Vittorio scrive in calce ad ogni sua narrazione..ma a fine libro ci si chiede
se umani lo siamo per davvero. Nella interessante Prefazione Michele Giorgio
scrive: "Senza i preziosi resoconti quotidiani di Arrigoni, spesso scritti
in condizioni difficili, durante i bombardamenti, nei rari internet point
dotati di un generatore autonomo di elettricità, anche il nostro giornale [il
Manifesto, ndr.] sarebbe stato costretto a riferire della guerra a Gaza solo
con i lanci delle agenzie di stampa, sperando di poter ottenere, attraverso
intermittenti comunicazioni telefoniche, qualche testimonianza diretta di quel
bagno di sangue. Accanto all’impegno di Arrigoni, non si può dimenticare il
lavoro, eccezionale, svolto dai reporter e dai cameramen palestinesi, quattro
dei quali sono rimasti uccisi e altri 35 feriti dai bombardamenti che hanno
anche colpito due sedi di giornali ed emittenti radiotelevisive."
Questo libro è adatto anche per i ragazzi e per la lettura nelle
scuole secondarie.