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RECESIONI, TESTI, POESIE

Filastrocca delle mamme



Le mamme son tante e son tutte diverse, come un bouquet di fiori del mondo...
c’è la mamma che fa la pasta
e ce n’è una con la lancia in resta
c’è chi a casa si dà da fare
e chi sempre va a lavorare
c’è chi in pancia ci ha portati
e chi ci ha accolti dopo che siam nati
c’è chi è pimpante e chi non ce la fa
ma tra sonno e sbadigli resta pur là

Le mamme son tante e son tutte diverse, come matite dentro l’astuccio 
c’è chi è felice di sfornare il pane
chi ha studiato e chi vuol studiare
chi scappa in banca mentre il papà
a casa cucina un buon baccalà
chi scrive, chi strilla, chi fa la cantante
chi recita versi con aria importante
chi fa l’infermiera e non torna la sera
chi l’appuntato dei carabinieri 
chi l'astronauta che solca i cieli
(lavori che mamma non poteva far ieri)
la prof che lavora fuori regione 
e gli abbracci rimanda alla prima occasione

Le mamme son tante e son tutte diverse, ma ci son le cose che vi rendono uguali:
che i vostri baci guariscon ferite, 
col vostro pensiero voi ci seguite, 
che non siete mai sazie di abbracci e risate, 
che di pazienza vi siete armate
ma soprattutto -  e vi dirò di più –
che sotto un cielo che è sempre più blu
mamma, per me, la più bella sei tu.

                    Rosanna Caccavo 

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PANE

di Arianna Egle Ventre

Ho comprato il detersivo, quello costoso, ma comunque non va via. Ho comprato anche la spugna adatta, ma quella maledetta pentola non si vuole scrostare. Nell'acqua nera galleggiano pezzetti di bruciato, per quanto continui a grattare, nulla da fare. La radio mi fa da sottofondo. E' da giorni che dicono sempre le stesse cose, ma non so perché ora i pezzetti di riso bruciato mi ricordano proprio questi immigrati di cui parla tanto la radio. Di questa nave..
Mio marito dice che non devo ascoltare informazioni alla radio, buona soltanto a farli apparire come poveri martiri. Dice che gli sta bene, stanno a non venire qua.
Domani devo comprare il pane, quello di ieri è secco.

Oggi sono andata dal fornaio e c'era uno come loro, nero, che mi guardava con occhi proprio da povero martire; mi ha chiesto dei soldi, ma io non gliel'ho dati. Domani, forse.

Devo tornare a comprare il pane. Prima però devo spazzare e preparare il pranzo a mio marito che sennò si offende e dice che si va a cercare una donna più bella. Beh, si, scherza, però io intanto questa pasta gliela cucino. La radio racconta ancora di loro ed è strano perché ci sto pensando tanto in questi giorni. C'era della polvere sotto le sedie e ho pensato - proprio come quei migranti là, è lì da giorni e non me ne ero accorta.

Devo andare a prendere il pane. Ieri gli ho lasciato un euro al ragazzo del forno, ma non l'ho detto a mio marito, si sarebbe arrabbiato. Mi ha ringraziato, aveva proprio un bel sorriso.

Oggi ci ho parlato, si chiama Angel, non so bene come si pronunci. Mi ha sorriso di nuovo, ma ho paura che qualcuno mi veda mentre gli parlo e pensi qualcosa di strano. Continuo a bruciare un sacco di cose in cucina, non mi era mai successo, deve essere per colpa di quella stupida radio che mi distrae. L'altro giorno la ascoltavo e mi sembrava un film di quelli drammatici, tanta era la voglia che avevo di piangere. Hanno raccontato la storia di un ragazzo di ventidue anni ed ero proprio triste. Ho pensato ad Angel. Ho provato a raccontarlo a mio marito a cena, ma si è arrabbiato tantissimo e mi ha tirato uno schiaffo dicendomi che di politica io non me ne devo fregare, non mi riguarda. E' finito il pane.

Angel mi ha chiesto come sto. Non gli avevo dato soldi.
Mio marito non me lo chiede mai.

Stanotte ho sognato la pentola da pulire e anche quei poveracci lì, di cui parla la radio. Affogavano in mezzo al detersivo,ma io continuavo a pulire mentre mio marito rideva.

Non ho ben capito, forse oggi li hanno fatti sbarcare. E' che io di queste cose non ci capisco nulla. Non so perché li tenessero lì in mare, però so perché non li vogliono, mio marito me lo spiega di continuo. Non so, non so davvero, continuo a sognarli e mi sento sempre un po' triste. Perché in fondo, non capisco, se vengono qua un motivo forse ce l'hanno. Mi ricordo che io quando avevo ventidue anni avevo paura all'idea di buttarmi sola nel grande mondo, volevo trovare in fretta un marito, perché vivere da sola...no che non ci volevo vivere da sola. Quindi, non lo so eh, non me ne intendo, ma forse, poverini, devono soffrire proprio tanto. Uh, il pane.

Oggi Angel era un po' giù, mi ha sorriso, come al solito, ma l'ho visto che era triste. Ho deciso di preparargli una torta. Torno a casa.

Mio marito è appena tornato a casa. Hai cucinato una torta. No, perché lo dici. Sei sporca di farina e quelle teglie, dov'è, ho fame, la voglio assaggiare. Scusami, l'ho regalata. A chi. Alla vicina. Non ti credo. Perché no. Vedo quando menti, sei una fifona. Chiediglielo. Vado.

Ma la vicina non sa stare al gioco, cazzo. E torna, rosso di rabbia, mi urla, ha le orecchie tappate, mi dice che ho un amante, ma gli dico che no, che dici, era per Angel il ragazzo africano che sta sempre davanti al forno. Perché cazzo non so mentire. Te la fai con i negri e, no, no! gli dico, ma non sente più nulla e mi tira uno schiaffo e ho paura e svengo e sogno, sogno Angel nel mare insieme a tanti altri. Tutti che mi urlano, ma le voci non sono voci umane, sono come la voce della radio, proprio quella e io sono seduta su una grande pagnotta di pane galleggiante e non posso fare nulla, mio marito mi tiene ferma e io non mi oppongo e Angel mi guarda e mi chiede: come stai?
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"4 libri x" rubrica di recensioni 



Libri per conoscere,  libri per pensare, per crescere, anche libri da leggere con i ragazzi, in biblioteca, a casa o a scuola.










4 LIBRI PER AVVICINARSI AL TEMA DEL FEMMINISMO ISLAMICO

A cura di Luisa Costalbano

Il Femminismo islamico è un movimento che si basa sulla rilettura del Corano, da una prospettiva femminile e che afferma l’uguaglianza di genere, proponendo la riforma di leggi ed istituzioni patriarcali in nome dell’islam. Trascendendo le categorie di Occidente ed Oriente, questo movimento è al tempo stesso locale e globale: poiché esso si è diffuso tra le donne che vivono sia nei paesi a maggioranza musulmana, sia in quelli della diaspora. Emerso tra la fine degli anni ‘80 ed inizi dei ‘90, l’effettiva portata del movimento deve prendere in considerazione le diverse realtà nazionali che si sono rese protagoniste.
I percorsi che portano all’emancipazione femminile si caratterizzano per un comune distacco dal modello universalista del femminismo occidentale, realizzandosi attraverso l’accettazione e la reinterpretazione della propria tradizione culturale.
Il femminismo islamico non si presenta però come un movimento omogeneo: una diversa critica di genere della storia e della tradizione islamica viene affrontata a seconda del contesto regionale e del posizionamento politico, dato che le femministe ritengono sia necessario fare riferimento alle condizioni delle donne in contesti nazionali specifici e alle differenze di ceto ed ambiente. In ogni caso, però, la centralità dell’islam non significa un ritorno al passato: essa è una reinvenzione individuale e collettiva che fa i conti con le esigenze della società del XXI secolo, il miglioramento della condizione femminile passa per una piena affermazione dei diritti civili, economici, politici e sociali di tutti i cittadini senza distinzioni di genere.
Il femminismo islamico si ritrova impegnato su due fronti: contrastare costumi e tradizioni misogine delle società musulmane e scardinare gli stereotipi occidentali che vedono l’islam come principale causa della subordinazione femminile. Affermano cioè la necessità di sfatare la retorica coloniale e missionaria che vede le donne musulmane come soggetti da salvare (con un atteggiamento di superiorità che implica prevaricazioni), quanto piuttosto cercare di lavorare insieme a loro, riconoscendo le responsabilità dell’Occidente nella costruzione delle ingiustizie globali. La religione in questa prospettiva va vista come strumento di liberazione e non come ostacolo all’emancipazione femminile: liberazione delle donne e riforma dell’islam sono elementi inscindibili di un processo che coinvolge donne e uomini musulmani.

Chahrazad non è marocchina, Fatima Mernissi, ed Sonda, Milano, 1993
“L’arabo soggiogato, umiliato, disprezzato, subirà una metamorfosi e diverrà persona sovrana in grado di esercitare la sua sovranità, il giorno in cui sarà allattato da una madre sovrana. E la sovranità dell’individuo passa attraverso l’accesso al sapere valorizzante”.
Con questa affermazione Fatima Mernissi ci catapulta nel nucleo centrale di questo suo lavoro, pubblicato in Italia da Edizioni Sonda  nel 1993. “Chahrazad non è marocchina” è un saggio attraverso il quale la studiosa magrebina analizza il problema della scolarizzazione femminile, delle enormi difficoltà di accesso al sapere che vivono le donne del suo paese e, in generale dell’area culturale araba e di come quella stessa area geografica potrebbe avere un diverso e maggiore grado di sviluppo se solo fosse aperta alla scolarizzazione femminile. E lo fa con il suo inconfondibile stile, graffiante e irriverente, ma anche minuziosamente scientifico.
L’idea geniale cui fa ricorso la Mernissi nell’impostazione di questo suo lavoro, è quella di ricondurre l’analisi del problema alle note vicende della protagonista de “Le mille e una notte”, quella Chahrazad che notte dopo notte riesce a posticipare il suo assassinio utilizzando lo strumento della parola e dunque della sua preparazione, del suo bagaglio culturale.
Per me, signore, leggere e scrivere non sono soltanto un passatempo; è una questione di sopravvivenza e al tempo stesso un piacere proibito per secoli ai dominati, ai poveri, alle donne e ai contadini”.
La tesi espressa dalla Mernissi è che esiste un rapporto molto stretto fra le donne con il sapere e, inevitabilmente, con il potere. Quanto più le donne riescono ad accedere all’istruzione, al sapere valorizzante, tanto più si compie la loro emancipazione da una situazione familiare di sottomissione, fino ad arrivare ad una piena partecipazione alla vita pubblica della nazione.
La storia della principessa Chahrazad diventa quindi metafora della figura del sottomesso, dominato, perdente, che con la forza della parola, inanellando le parole come perle di una collana, riesce a soggiogare il proprio carnefice e a conquistare la libertà (ovvero la sopravvivenza nel caso della storia narrata ne “Le mille e una notte”). Ma come è possibile che Chahrazad, una donna, riesca in questo arduo compito? Può riuscirci perché lei è un’aristocratica che ha trascorso la sua infanzia e adolescenza a leggere, ad accumulare informazioni, nozioni, che le daranno gli elementi per inventare notte dopo notte, mille e una storia.
Secondo me – prosegue la Mernissi – il fattore chiave delle diseguaglianze di classe, quello che con maggior attenzione deve essere analizzato da coloro che riflettono seriamente su di un avvenire migliore e su una prosperità più equamente condivisa, è l’accesso delle donne al sapere e al salario”.
L’accesso delle donne al mondo dell’istruzione è un elemento chiave sia per l’evoluzione delle classi meno abbienti, con la possibilità di percepire un altro salario nel momento in cui la donna istruita o quanto meno formata riesce ad entrare nel mondo del lavoro, sia delle classi più socialmente elevate, quella borghesia che potrà vantare figli e figlie nei settori in vista della carriera professionale.
(da un articolo di Beatrice Tauro)

Fatima Mernissi, (Fès, 1940 – Rabat, 30 novembre 2015), è stata una scrittrice e sociologa marocchina. Nata a Fez, città del Marocco settentrionale durante il periodo di protettorato francese, Fatima trascorse la sua giovinezza nell’harem di famiglia appartenente alla borghesia cittadina. Completati gli studi in Marocco si trasferì prima in Francia e successivamente negli Stati Uniti dove ottenne un dottorato di ricerca in sociologia alla Brandens University nel 1974.
L’immaginazione e la fantasia diventano uno strumento di resistenza e di elusione di regole e istituzioni, nella cornice spazio-temporale e relazionale della quotidianità, attraverso la rievocazione di mondi altri e di donne. Dalle donne immaginate e evocate si passerà alle donne studiate, oggetto delle sue ricerche, a partire da quella di dottorato, condensata nel libro Beyond the Veil: Male-Female Dynamics in the Modern Society. Di ritorno dagli Stati Uniti, Fatima iniziò la sua attività accademica all’università Mohammed V di Rabat e proseguì i suoi studi e le sue ricerche nel solco tracciato. A questa prima prospettiva farà seguito un suo spostamento e ri-posizionamento all’interno di quello che viene definito femminismo islamico.


Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme. Renata Pepicelli, Carocci ed., Roma, 2010
Il libro racconta la nascita e l’affermazione del femminismo islamico, e parallelamente descrive lo sviluppo di un crescente attivismo femminile all’interno dei movimenti islamisti. Ciò che emerge è il ritratto di un mondo musulmano variegato e in trasformazione, che smentisce molti stereotipi diffusi in Occidente.
L’opera, introdotta dalle riflessioni delle studiose Isabella Camera d’Afflitto e Margot Badran, si articola in cinque capitoli I: «Il movimento femminista nel mondo arabo tra XIX e XX secolo» II: «L’affermarsi del femminismo islamico». III: «Teologia femminista». IV: «Jihad al femminile». V: «Le islamistiche».
“Esiste un femminismo islamico, una teologia femminista islamica, una lettura coranica con occhi di donna. Queste tre affermazioni mettono a nudo tutta la nostra ignoranza sul tema “Donne e Islam” e l’assoluta adesione all’informazione mainstream, spesso pregiudiziale, che presenta in modo monolitico la complessa e differenziata realtà islamica nel mondo. Il femminismo non è una prerogativa dell’Occidente; si colgono profonde similitudini tra la ricerca delle donne e teologhe cattoliche nel reinterpretare la Bibbia e sgrossarla dalla cultura patriarcale che le ha escluse per secoli, e la fatica ermeneutica e culturale delle donne islamiche nel riappropriarsi del Corano in una chiave femminile.” (Patrizia Morgante)

Renata Pepicelli è titolare dal 2008 di un assegno di ricerca presso il dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Dottore di ricerca in “Geopolitica e culture del Mediterraneo” presso il Sum, Istituto Italiano di Scienze Umane / Università Federico II di Napoli (2008). Attualmente è cultore della materia in Storia e istituzioni dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma3 e collabora a ricerche nazionali e internazionali con l’università di Bologna, lo IAI (Istituto Affari Internazionale) e l’Istituto di studi politici San PIO V. È membro della redazione della rivista “Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale”. Ha scritto anche “Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica”, Roma, Carocci, 2012.

Le donne velate dell'Islam, Hinde Taarji, Essedue Edizioni, 1992
Indagine sul mondo femminile mussulmano: descrizione delle esperienze di vita sociale e religiosa di donne incontrate dall'autrice. Viaggio in Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Libano e Algeria alla ricerca dei motivi che hanno spinto tante giovani donne arabe a riaccettare il velo di cui le loro madri si erano coraggiosamente liberate. Per superare l'abusata icona pregiudiziale della donna musulmana associata al velo e alla miseria intellettuale, in altri termini alla non-modernità, questo testo permette di attualizzare lo sguardo posato sulle donne in terra di islam. Inchiesta giornalistica, con interviste, che percorre gran parte dei paesi arabi proprio per domandare alle donne il perché del loro indossare l'hijab.
Hinde Taarji, nel suo libro, ci racconta ad esempio il suo incontro con la caporedattrice di "Anaka ua hishma" (Finezza e Pudore), una vera e propria rivista di moda per muhadjdjabah (donne velate). "La funzione dell'hijab - domanda l'autrice - non è quella di permettere alla donna di muoversi con discrezione e di attenuare la sua naturale bellezza?” Risponde Kariman, la creatrice della linea e della rivista “La bellezza non è prescritta nell'Islam; è 'el fitna' che è condannabile. 'El fitna' è il turbamento provocato in un uomo dalla vista dell' "awra" della donna. L' 'awra' è tutto ciò che sveglia il suo desiderio sessuale. Il corpo femminile è considerato 'awra'. Si ritiene, per esempio, che i capelli siano elementi di 'fitna'. Ma una volta che la parte 'awra' è nascosta, niente impedisce a una donna di essere bella perché l'Islam non le chiede di diventare una monaca. Non c'è rigidità nell'Islam."
Riportiamo, sempre dal testo, parte dell'intervista fatta a Samira, una giovane donna Muhadjdjabah, ovvero velata, che aderisce al movimento islamico sciita degli ›izballah (Partito di Dio) in Libano: "All'inizio, le donne erano perplesse nei confronti dell'hijab perché temevano di sembrare delle creature timide e timorate. Invece si produce proprio l'effetto contrario. La mussulmana "multazima" [impegnata] con l'hijab si libera della paura ed è perciò più forte di quella che non lo porta. Noi siamo tutte istruite - continua con fierezza - siamo entrate all'università armate della nostra convinzione. Adesso, a differenza del passato, difendiamo con forza le nostre opinioni. Un tempo la donna non si esprimeva perché era oppressa dalla Tradizione, non dall'Islam. Il padre, con il pretesto della religione, obbligava la figlia a restare in casa. L'Islam non ha mai voluto questo. Grazie all'Islam la donna ha avuto la possibilità di scendere in strada. Sayeda Kadija, la prima moglie del Profeta, non si recava forse al mercato per trattare gli affari? Le donne evitavano l'Islam perché lo credevano responsabile della tirannia del padre, del fratello, del marito. Il giorno in cui hanno capito che invece le liberava, lo hanno accettato.”

Hinde Taarji, marocchina e mussulmana, vive a Casablanca. Giornalista e scrittrice, ha iniziato la sua carriera partecipando all'avventura di “Kalima”, emblematica rivista degli anni 80. Membro fondatore di questa rivista mensile d'avanguardia che segna il panorama dei media marocchini con il suo tono sovversivo e il suo trattamento dei tabù sociali È caporedattore fino alla fine della pubblicazione, soffocata da ripetute censure. Il suo gusto per i viaggi e le indagini sul campo l'ha portata a viaggiare in un gran numero di paesi arabi, impegnando numerosi libri su argomenti diversi come il velo, la Palestina o gli anni neri algerini. È anche interessata alla questione della migrazione, condirettore della Fondazione Hassan II per i marocchini che vivono all'estero uno "stato di immigrazione" dedicato alla diaspora marocchina all'estero. È anche regista di documentari per il canale marocchino 2M. Ed è stata, per quasi due decenni, editorialista del settimanale La Vie Eco. Dal 2008 gestisce il sito web dimablada.ma, un portale online per marocchini di tutto il mondo che ha creato per la Fondazione Banque Populaire.
  
Nel cuore della notte algerina, Assia Djebar, Giunti ed, Firenze, 1998
Sviluppato in due parti e sette racconti, il volume ruota attorno a figure femminili di diverse età ed estrazioni sociali. Spesso sono le protagoniste a parlare in prima persona, altre volte sono parenti e conoscenti a raccontare per loro. Direttamente o meno, ogni vicenda è legata ai fatti accaduti nei decenni fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso in Francia e Algeria. Conflitti armati, attentati sanguinosi che coinvolgono anche civili, formazioni terroristiche e contestazione politica aprono una finestra su un periodo storico che forse, per noi italiani, non è stato ancora approfondito a sufficienza. Assia Djebar vuole fare proprio questo: offrire un ricordo di tutti quegli uomini e donne che hanno pagato la difesa di un ideale a prezzo del proprio sangue o di quello di coloro che amavano. C’è molto dolore in queste pagine, ma anche molta dignità e, nonostante ne emerga una critica verso alcuni aspetti del mondo islamico, c’è anche tanto amore per l’Algeria. Attraverso una narrazione sensuale, a tratti onirica e vicina alla fiaba, l’autrice travolge il lettore e lo immerge in odori, colori, accezioni linguistiche e religiose proprie del mondo algerino. Un folgorante affresco delle ''nuove donne d'Algeria'' nelle più recenti vicende di esilio e di eroismo, di speranza e di violenza.
Assia Djebar racconta di donne e uomini che vivono in costante pericolo, in clandestinità, in lutto, ma continuano a resistere contro le mutilazioni dei corpi e dei pensieri, contro la cancellazione delle voci presenti e passate. Una delle narratrici, ancora bambina, ha sacrificato alla guerra ciò che di più caro aveva al mondo: la madre e il padre. Cresciuta dalla zia materna, ripercorre con il viaggio e con la scrittura il “vuoto in una lingua muta” che Orano, città natale, ha lasciato in lei… anche Wardya sa bene quanto sia difficile essere donna, avere vent’anni e vedersi improvvisamente privati della libertà per non disonorare il buon nome paterno… e poi ancora Isma che vive la sua giovinezza in clandestinità, nel terrore di essere trovata e uccisa, ma che suo malgrado non riesce a sfuggire all’amore… lo sa bene anche Atika, professoressa di francese ad Algeri: appassionata di letteratura e politica, analizza con gli alunni alcuni brani tratti da Le mille e una notte e diventa lei stessa una moderna Sherazad…
Il femminismo di Assia Djebar è difficilmente classificabile e si sottrae a definizioni militanti o ideologiche. È piuttosto un impegno a distanza che mai confonde la solidarietà, la sorellanza, con l’identità. Un femminismo che non cade nella trappola dell’ergersi a portavoce delle altre; tutt’al più scrive per coloro che sono escluse dalla scrittura.

Assia Djebar: La vita di questa grande scrittrice e cineasta algerina non è scindibile dai destini del suo tormentato paese. Assia Djebar nasce nel 1936 a Cherchell, una piccola città costiera situata a circa 80 km da Algeri, da una famiglia appartenente alla piccola borghesia algerina. La madre, discendente fiera di una famiglia aristocratica berbera, trasmette alla figlia un vasto patrimonio delle tradizioni, legato alla trasmissione orale, per via genealogica femminile. E Assia, già da piccola, è ben consapevole del privilegio di cui gode rispetto alle ragazze della sua età, chiuse in casa e velate a partire dalla pubertà. Dopo gli anni del collegio in Algeria, Assia frequenta il liceo Fénélon a Parigi e sarà la prima donna algerina ammessa all’École Normale Supérieure a Sèvres. Ma le vicende del suo paese interrompono un percorso che sembrava prefigurarsi lineare: la guerra di liberazione degli algerini contro il regime coloniale francese inizia nel 1954. Assia partecipa allo sciopero generale degli studenti algerini nel 1956; a solo vent’anni pubblica il suo primo romanzo La Soif, e abbandona la Scuola prestigiosa per seguire il fidanzato, militante dell’FLN, nella clandestinità. Dopo l’Indipendenza dell’Algeria, Assia Djebar ricopre la cattedra di Storia moderna e contemporanea dell’Africa del Nord all’università di Algeri. Nei decenni successivi Assia, che si definisce “femme en marche”, donna nomade; dagli anni Sessanta fino ai primi anni Novanta, fino all’inizio della guerra civile in Algeria, Assia Djebar vive e lavora a periodi alterni fra Algeri e Parigi. A partire dal 2001, dividendosi tra Francia e Stati Uniti, insegna nel Dipartimento di studi francese dell’università di New York, abbandonando la cattedra che aveva precedentemente occupato alla Lousiana State University dal 1995. Muore il 6 febbraio 2015, a Parigi, all'età di 78 anni.

Segnalo infine un articolo interessante, un sito da consultare e una tesi di laurea sul tema, consapevole che questa scelta di libri non è assolutamente esaustiva del tema.
Il movimento femminista in Arabia Saudita
I femminismi nel Maghreb fra paradigmi e prospettive di emancipazione femminile, Chiara Nardelli



4 LIBRI X CAPIRE LA PALESTINA E LA QUESTIONE PALESTINESE

A cura di Luisa Costalbano
1) Edward Said: LA QUESTIONE PALESTINESE, 2002 Feltrinelli.
Un classico di sorprendente attualità, che continua a offrire elementi di riflessione e ci aiuta a cogliere in profondità le ragioni storiche di ciò che oggi sta accadendo in Palestina. Said ricostruisce i fatti dal punto di vista palestinese – e non genericamente arabo o islamico – a partire dagli inizi dell’intera vicenda: la nascita del movimento sionista, l’affermazione della sua ideologia nel contesto della cultura colonialista europea, l’avvio del fenomeno migratorio verso la Palestina. In parallelo traccia la storia del popolo palestinese, presentandone un accurato profilo demografico e sociologico. Molti sono i collegamenti e le affinità tra la storia degli arabi e quella dei palestinesi, così come si sono definiti nel secolo scorso. Ma l’incontro traumatico con l’occupazione israeliana ha reso unica la storia dei palestinesi. L’unicità di questa storia e di questo popolo, con le sue vite vissute, le sue tante sofferenze e le sue profonde aspirazioni, è messa a fuoco e analizzata in “La questione palestinese”. La storia nazionale palestinese testimonia uno scontro perdente tra un’ambiziosa ideologia, fondamentalmente europea, e l’incapacità di convincere l’Occidente della giustezza della causa anticolonialista araba. Eppure, nonostante questo tragico fallimento, nonostante i palestinesi siano stati dispersi, frazionati, espropriati dei loro territori, essi hanno saputo sviluppare una sorprendente capacità di resistenza e, soprattutto, dare vita alla loro specifica identità di popolo. A partire dalla realtà storica del suo popolo, Edward W. Said in questo libro mette crudamente alla prova l’infondatezza delle gabbie interpretative già criticate in “Orientalismo”, fornendo la definizione più esauriente e illuminante della questione palestinese.

2) Ilan Pappé, LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA, 2008 Fazi editore.
«Ilan Pappe è forse il più anticonformista degli israeliani, che conduce una battaglia radicale contro l’establishment politico e accademico di Israele» (Mario Vargas Llosa). Nel 1948 nacque lo Stato d’Israele. Ma nel 1948 ebbe luogo anche la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la cacciata di più di un milione di palestinesi dalla loro terra. La vulgata israeliana ha sempre narrato che in quell’anno, allo scadere del Mandato britannico in Palestina, le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due Stati: il movimento sionista era d’accordo, ma il mondo arabo si oppose; per questo, entrò in guerra con Israele e convince i palestinesi ad abbandonare i territori – nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di facilitare l’ingresso delle truppe arabe. La tragedia dei rifugiati palestinesi, di conseguenza, non sarebbe direttamente imputabile a Israele. Ilan Pappe, ricercatore appartenente alla corrente dei New Historians israeliani, ha studiato a lungo la documentazione (compresi gli archivi militari desecretati nel 1988) esistente su questo punto cruciale della storia del suo paese, giungendo a una visione chiara di quanto era accaduto nel ’48 drammaticamente in contrasto con la versione tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele (in particolare sotto la direzione del padre del sionismo, David Ben Gurion) aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina. Ciò comporta, secondo l’autore, enormi implicazioni di natura morale e politica, perché definire pulizia etnica quello che Israele fece nel ’48 significa accusare lo Stato d’Israele di un crimine. E nel linguaggio giuridico internazionale, la pulizia etnica è un crimine contro l’umanità. Per questo, secondo Pappe, il processo di pace si potrà avviare solo dopo che gli israeliani e l’opinione pubblica mondiale avranno ammesso questo “peccato originale”.

3) Enrico Bartolomei, Diana Carminati e Alfredo Tradardi: GAZA E L’INDUSTRIA ISRAELIANA DELLA VIOLENZA, 2015 Edizioni Derive e Approdi.
Un libro fondamentale per comprendere nella sua dimensione il significato della occupazione sionista, e che offre, nel percorso storico e nell’analisi politico- sociale, una visione accurata di quella che gli autori definiscono vera e propria “industria della violenza” israeliana in tutta la Palestina (fuori e dentro i confini  del 48 e poi del ’67 e dai successivi furti di terra) e nella Striscia di Gaza in particolare. Identificando nel concetto e nella realtà della violenza il “nucleo costitutivo” dell’essenza di Israele, il saggio analizza nei suoi 11 capitoli come essa si sostanzi in alcune dimensioni chiave:
- la violenza del “colonialismo di insediamento”, categoria politica di recente evidenziata da Pappé, attuato fin dalla nascita di Israele nel ‘47 e perpetrato oggi con il sostegno dell’Occidente e delle monarchie arabe;
- la violenza insita nel cosiddetto ‘processo di pace’ culminato negli accordi di Oslo e nel collaborazionismo della Autorità Nazionale Palestinese, connivente con l’occupazione e nel contempo strangolata dai ricatti economici di Israele;
- la violenza economica contro i palestinesi, sia in Cisgiordania sia nella Striscia, attuata non soltanto con il blocco illegale ma anche ad esempio con il “razionamento alimentare” che mantiene funzionalmente la popolazione gazawi appena sopra il livello minimo di sopravvivenza;
- la violenza genocidaria delle operazioni militari scatenate dal 2004 su Gaza e culminate con Margine Protettivo dell’estate 2014;
- la “violenza concentrazionaria” israeliana, fondata sul ‘paradigma carcerario’ che si evidenzia nel sistema di controllo e confinamento dei palestinesi in Israele, nel modello carcerario in Cisgiordania e nella Striscia come enorme campo di concentramento, negli insediamenti-fortezza delle colonie;
- la violenza del sistema israeliano dell’industria militare e della sicurezza, in cui Gaza è laboratorio di sperimentazione bellica di nuove armi;
- infine la violenza della ricostruzione, che mette in luce l’industria degli aiuti e la politica della dipendenza, in cui l’ONU si fa “tutore dell’assedio”.

4) Vittorio Arrigoni: GAZA. RESTIAMO UMANI. 2009 Manifestolibri.
L’Esperienza di Vittorio Arrigoni, un uomo che ha scritto dell'operazione PIOMBO FUSO, non dalla scrivania di un comodo ufficio delle nostre tranquille città "occidentali" ma direttamente da Gaza. Stralci di una guerra assurda, assurda come tutte le guerre. Atrocità che solo chi è in prima linea può vedere e probabilmente MAI dimenticare. La testimonianza di Vittorio è cruda, diretta, senza fronzoli, con riflessioni e commenti riguardanti le criticità che attanagliano quella zona ormai da decenni. "Stay human" o "restiamo umani", è la frase che Vittorio scrive in calce ad ogni sua narrazione..ma a fine libro ci si chiede se umani lo siamo per davvero. Nella interessante Prefazione Michele Giorgio scrive: "Senza i preziosi resoconti quotidiani di Arrigoni, spesso scritti in condizioni difficili, durante i bombardamenti, nei rari internet point dotati di un generatore autonomo di elettricità, anche il nostro giornale [il Manifesto, ndr.] sarebbe stato costretto a riferire della guerra a Gaza solo con i lanci delle agenzie di stampa, sperando di poter ottenere, attraverso intermittenti comunicazioni telefoniche, qualche testimonianza diretta di quel bagno di sangue. Accanto all’impegno di Arrigoni, non si può dimenticare il lavoro, eccezionale, svolto dai reporter e dai cameramen palestinesi, quattro dei quali sono rimasti uccisi e altri 35 feriti dai bombardamenti che hanno anche colpito due sedi di giornali ed emittenti radiotelevisive."
Questo libro è adatto anche per i ragazzi e per la lettura nelle scuole secondarie.