Il Femminismo islamico è
un movimento che si basa sulla rilettura del Corano, da una prospettiva femminile
e che afferma l’uguaglianza di genere, proponendo la riforma di leggi ed
istituzioni patriarcali in nome dell’islam. Trascendendo le categorie di
Occidente ed Oriente, questo movimento è al tempo stesso locale e globale:
poiché esso si è diffuso tra le donne che vivono sia nei paesi a maggioranza
musulmana, sia in quelli della diaspora. Emerso tra la fine degli anni ‘80 ed inizi
dei ‘90, l’effettiva portata del movimento deve prendere in considerazione le
diverse realtà nazionali che si sono rese protagoniste.
I percorsi che portano
all’emancipazione femminile si caratterizzano per un comune distacco dal modello
universalista del femminismo occidentale, realizzandosi attraverso
l’accettazione e la reinterpretazione della propria tradizione culturale.
Il femminismo islamico
non si presenta però come un movimento omogeneo: una diversa critica di genere
della storia e della tradizione islamica viene affrontata a seconda del
contesto regionale e del posizionamento politico, dato che le femministe
ritengono sia necessario fare riferimento alle condizioni delle donne in
contesti nazionali specifici e alle differenze di ceto ed ambiente. In ogni caso,
però, la centralità dell’islam non significa un ritorno al passato: essa è una
reinvenzione individuale e collettiva che fa i conti con le esigenze della
società del XXI secolo, il miglioramento della condizione femminile passa per
una piena affermazione dei diritti civili, economici, politici e sociali di
tutti i cittadini senza distinzioni di genere.
Il femminismo islamico
si ritrova impegnato su due fronti: contrastare costumi e tradizioni misogine delle
società musulmane e scardinare gli stereotipi occidentali che vedono l’islam
come principale causa della subordinazione femminile. Affermano cioè la
necessità di sfatare la retorica coloniale e missionaria che vede le donne
musulmane come soggetti da salvare (con un atteggiamento di superiorità che
implica prevaricazioni), quanto piuttosto cercare di lavorare insieme a loro,
riconoscendo le responsabilità dell’Occidente nella costruzione delle
ingiustizie globali. La religione in questa prospettiva va vista come strumento
di liberazione e non come ostacolo all’emancipazione femminile: liberazione
delle donne e riforma dell’islam sono elementi inscindibili di un processo che
coinvolge donne e uomini musulmani.
Chahrazad
non è marocchina, Fatima Mernissi, ed Sonda, Milano,
1993
“L’arabo soggiogato, umiliato, disprezzato, subirà una metamorfosi e
diverrà persona sovrana in grado di esercitare la sua sovranità, il giorno in
cui sarà allattato da una madre sovrana. E la sovranità dell’individuo passa
attraverso l’accesso al sapere valorizzante”.
Con questa
affermazione Fatima Mernissi ci catapulta nel nucleo centrale di questo suo lavoro, pubblicato in
Italia da Edizioni Sonda nel 1993. “Chahrazad non è marocchina” è un saggio attraverso il
quale la studiosa magrebina analizza
il problema della scolarizzazione femminile, delle enormi difficoltà di accesso al sapere che vivono le donne del suo paese e,
in generale dell’area culturale araba e di come quella stessa area geografica
potrebbe avere un diverso e maggiore grado di sviluppo se solo fosse aperta
alla scolarizzazione femminile. E lo fa con il suo inconfondibile stile,
graffiante e irriverente, ma anche minuziosamente scientifico.
L’idea geniale cui fa
ricorso la Mernissi nell’impostazione di questo suo lavoro, è quella di ricondurre l’analisi del problema alle
note vicende della protagonista de “Le mille e una notte”, quella Chahrazad che
notte dopo notte riesce a posticipare il suo assassinio utilizzando lo
strumento della parola e dunque della sua preparazione, del suo bagaglio
culturale.
“Per me, signore, leggere e scrivere non sono
soltanto un passatempo; è una questione di sopravvivenza e al tempo stesso un
piacere proibito per secoli ai dominati, ai poveri, alle donne e ai contadini”.
La tesi espressa dalla
Mernissi è che esiste un rapporto molto stretto fra le donne con il sapere e, inevitabilmente, con il potere. Quanto più le
donne riescono ad accedere all’istruzione, al sapere valorizzante, tanto più si
compie la loro emancipazione da una situazione familiare di sottomissione, fino
ad arrivare ad una piena partecipazione alla vita pubblica della nazione.
La storia della principessa
Chahrazad diventa quindi metafora della figura del sottomesso, dominato, perdente, che con la forza della parola,
inanellando le parole come perle di una collana, riesce a soggiogare il proprio
carnefice e a conquistare la
libertà (ovvero la sopravvivenza nel caso della storia narrata ne
“Le mille e una notte”). Ma come è
possibile che Chahrazad, una donna, riesca in questo arduo compito? Può
riuscirci perché lei è un’aristocratica che ha trascorso la sua infanzia e
adolescenza a leggere, ad accumulare informazioni, nozioni, che le daranno gli
elementi per inventare notte dopo notte, mille e una storia.
“Secondo me – prosegue la Mernissi – il fattore chiave delle
diseguaglianze di classe, quello che con maggior attenzione deve essere
analizzato da coloro che riflettono seriamente su di un avvenire migliore e su
una prosperità più equamente condivisa, è l’accesso delle donne al sapere e al
salario”.
L’accesso delle donne al
mondo dell’istruzione è un elemento chiave sia
per l’evoluzione delle classi meno abbienti, con la possibilità di percepire un
altro salario nel momento in cui la donna istruita o quanto meno formata riesce
ad entrare nel mondo del lavoro, sia delle classi più socialmente elevate,
quella borghesia che potrà vantare figli e figlie nei settori in vista della
carriera professionale.
(da un articolo di Beatrice Tauro)
Fatima Mernissi, (Fès, 1940 – Rabat, 30 novembre
2015), è stata una scrittrice e sociologa marocchina. Nata a Fez, città del
Marocco settentrionale durante il periodo di protettorato francese, Fatima
trascorse la sua giovinezza nell’harem di famiglia appartenente alla borghesia
cittadina. Completati gli studi in Marocco si trasferì prima in Francia e successivamente
negli Stati Uniti dove ottenne un dottorato di ricerca in sociologia alla
Brandens University nel 1974.
L’immaginazione
e la fantasia diventano uno strumento di resistenza e di elusione di regole e
istituzioni, nella cornice spazio-temporale e relazionale della quotidianità,
attraverso la rievocazione di mondi altri e di donne. Dalle donne immaginate e
evocate si passerà alle donne studiate, oggetto delle sue ricerche, a partire
da quella di dottorato, condensata nel libro Beyond the Veil: Male-Female
Dynamics in the Modern Society. Di ritorno dagli Stati Uniti, Fatima iniziò la
sua attività accademica all’università Mohammed V di Rabat e proseguì i suoi
studi e le sue ricerche nel solco tracciato. A questa prima prospettiva farà
seguito un suo spostamento e ri-posizionamento all’interno di quello che viene
definito femminismo islamico.
Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme. Renata Pepicelli, Carocci ed., Roma, 2010
Il libro racconta la nascita e l’affermazione del
femminismo islamico, e parallelamente descrive lo sviluppo di un crescente
attivismo femminile all’interno dei movimenti islamisti. Ciò che emerge è il ritratto
di un mondo musulmano variegato e in trasformazione, che smentisce molti
stereotipi diffusi in Occidente.
L’opera, introdotta dalle riflessioni delle studiose Isabella
Camera d’Afflitto e Margot Badran, si articola in cinque capitoli I: «Il movimento
femminista nel mondo arabo tra XIX e XX secolo» II: «L’affermarsi del
femminismo islamico». III: «Teologia femminista». IV: «Jihad al femminile». V:
«Le islamistiche».
“Esiste un femminismo islamico, una teologia femminista
islamica, una lettura coranica con occhi di donna. Queste tre affermazioni
mettono a nudo tutta la nostra ignoranza sul tema “Donne e Islam” e l’assoluta
adesione all’informazione mainstream, spesso pregiudiziale, che presenta in
modo monolitico la complessa e differenziata realtà islamica nel mondo. Il
femminismo non è una prerogativa dell’Occidente; si colgono profonde
similitudini tra la ricerca delle donne e teologhe cattoliche nel reinterpretare
la Bibbia e sgrossarla dalla cultura patriarcale che le ha escluse per secoli,
e la fatica ermeneutica e culturale delle donne islamiche nel riappropriarsi
del Corano in una chiave femminile.” (Patrizia Morgante)
Renata
Pepicelli è titolare dal 2008 di un assegno di ricerca presso il
dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia della Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Bologna. Dottore di ricerca in “Geopolitica e
culture del Mediterraneo” presso il Sum, Istituto Italiano di Scienze Umane / Università
Federico II di Napoli (2008). Attualmente è cultore della materia in Storia e
istituzioni dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Roma3 e collabora a ricerche nazionali e internazionali con
l’università di Bologna, lo IAI (Istituto Affari Internazionale) e l’Istituto
di studi politici San PIO V. È membro della redazione della rivista “Jura
Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica
globale”. Ha scritto anche “Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica”,
Roma, Carocci, 2012.
Le donne velate dell'Islam,
Hinde Taarji, Essedue Edizioni, 1992
Indagine
sul mondo femminile mussulmano: descrizione delle esperienze di vita sociale e
religiosa di donne incontrate dall'autrice. Viaggio in Egitto, Emirati Arabi
Uniti, Kuwait, Libano e Algeria alla ricerca dei motivi che hanno spinto tante
giovani donne arabe a riaccettare il velo di cui le loro madri si erano
coraggiosamente liberate. Per superare l'abusata icona pregiudiziale della
donna musulmana associata al velo e alla miseria intellettuale, in altri termini
alla non-modernità, questo testo permette di attualizzare lo sguardo posato
sulle donne in terra di islam. Inchiesta giornalistica, con interviste, che
percorre gran parte dei paesi arabi proprio per domandare alle donne il perché
del loro indossare l'hijab.
Hinde
Taarji, nel suo libro, ci racconta ad esempio il suo incontro con la
caporedattrice di "Anaka ua hishma" (Finezza e Pudore), una vera e
propria rivista di moda per muhadjdjabah (donne velate). "La funzione
dell'hijab - domanda l'autrice - non è quella di permettere alla donna di
muoversi con discrezione e di attenuare la sua naturale bellezza?” Risponde
Kariman, la creatrice della linea e della rivista “La bellezza non è prescritta
nell'Islam; è 'el fitna' che è condannabile. 'El fitna' è il turbamento
provocato in un uomo dalla vista dell' "awra" della donna. L' 'awra'
è tutto ciò che sveglia il suo desiderio sessuale. Il corpo femminile è
considerato 'awra'. Si ritiene, per esempio, che i capelli siano elementi di
'fitna'. Ma una volta che la parte 'awra' è nascosta, niente impedisce a una
donna di essere bella perché l'Islam non le chiede di diventare una monaca. Non
c'è rigidità nell'Islam."
Riportiamo,
sempre dal testo, parte dell'intervista fatta a Samira, una giovane donna
Muhadjdjabah, ovvero velata, che aderisce al movimento islamico sciita degli
›izballah (Partito di Dio) in Libano: "All'inizio, le donne erano
perplesse nei confronti dell'hijab perché temevano di sembrare delle creature
timide e timorate. Invece si produce proprio l'effetto contrario. La mussulmana
"multazima" [impegnata] con l'hijab si libera della paura ed è perciò
più forte di quella che non lo porta. Noi siamo tutte istruite - continua con
fierezza - siamo entrate all'università armate della nostra convinzione.
Adesso, a differenza del passato, difendiamo con forza le nostre opinioni. Un
tempo la donna non si esprimeva perché era oppressa dalla Tradizione, non
dall'Islam. Il padre, con il pretesto della religione, obbligava la figlia a
restare in casa. L'Islam non ha mai voluto questo. Grazie all'Islam la donna ha
avuto la possibilità di scendere in strada. Sayeda Kadija, la prima moglie del
Profeta, non si recava forse al mercato per trattare gli affari? Le donne evitavano
l'Islam perché lo credevano responsabile della tirannia del padre, del
fratello, del marito. Il giorno in cui hanno capito che invece le liberava, lo
hanno accettato.”
Hinde Taarji, marocchina e mussulmana, vive a
Casablanca. Giornalista e scrittrice, ha iniziato la sua carriera partecipando
all'avventura di “Kalima”, emblematica rivista degli anni 80. Membro fondatore
di questa rivista mensile d'avanguardia che segna il panorama dei media
marocchini con il suo tono sovversivo e il suo trattamento dei tabù sociali È
caporedattore fino alla fine della pubblicazione, soffocata da ripetute
censure. Il suo gusto per i viaggi e le indagini sul campo l'ha portata a
viaggiare in un gran numero di paesi arabi, impegnando numerosi libri su
argomenti diversi come il velo, la Palestina o gli anni neri algerini. È anche
interessata alla questione della migrazione, condirettore della Fondazione
Hassan II per i marocchini che vivono all'estero uno "stato di
immigrazione" dedicato alla diaspora marocchina all'estero. È anche
regista di documentari per il canale marocchino 2M. Ed è stata, per quasi due
decenni, editorialista del settimanale La Vie Eco. Dal 2008 gestisce il sito
web dimablada.ma, un portale online per marocchini di tutto il mondo che ha
creato per la Fondazione Banque Populaire.
Nel
cuore della notte algerina, Assia Djebar,
Giunti ed, Firenze, 1998
Sviluppato
in due parti e sette racconti, il volume ruota attorno a figure femminili di diverse
età ed estrazioni sociali. Spesso sono le protagoniste a parlare in prima
persona, altre volte sono parenti e conoscenti a raccontare per loro.
Direttamente o meno, ogni vicenda è legata ai fatti accaduti nei decenni fra
gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso in Francia e Algeria. Conflitti
armati, attentati sanguinosi che coinvolgono anche civili, formazioni
terroristiche e contestazione politica aprono una finestra su un periodo
storico che forse, per noi italiani, non è stato ancora approfondito a
sufficienza. Assia Djebar vuole fare proprio questo: offrire un ricordo di
tutti quegli uomini e donne che hanno pagato la difesa di un ideale a prezzo
del proprio sangue o di quello di coloro che amavano. C’è molto dolore in
queste pagine, ma anche molta dignità e, nonostante ne emerga una critica verso
alcuni aspetti del mondo islamico, c’è anche tanto amore per l’Algeria.
Attraverso una narrazione sensuale, a tratti onirica e vicina alla fiaba,
l’autrice travolge il lettore e lo immerge in odori, colori, accezioni
linguistiche e religiose proprie del mondo algerino. Un folgorante affresco
delle ''nuove donne d'Algeria'' nelle più recenti vicende di esilio e di
eroismo, di speranza e di violenza.
Assia
Djebar racconta di donne e uomini che vivono in costante pericolo, in
clandestinità, in lutto, ma continuano a resistere contro le mutilazioni dei
corpi e dei pensieri, contro la cancellazione delle voci presenti e passate. Una
delle narratrici, ancora bambina, ha sacrificato alla guerra ciò che di più
caro aveva al mondo: la madre e il padre. Cresciuta dalla zia materna,
ripercorre con il viaggio e con la scrittura il “vuoto in una lingua muta” che
Orano, città natale, ha lasciato in lei… anche Wardya sa bene quanto sia
difficile essere donna, avere vent’anni e vedersi improvvisamente privati della
libertà per non disonorare il buon nome paterno… e poi ancora Isma che vive la
sua giovinezza in clandestinità, nel terrore di essere trovata e uccisa, ma che
suo malgrado non riesce a sfuggire all’amore… lo sa bene anche Atika,
professoressa di francese ad Algeri: appassionata di letteratura e politica,
analizza con gli alunni alcuni brani tratti da Le mille e una notte e diventa
lei stessa una moderna Sherazad…
Il
femminismo di Assia Djebar è difficilmente classificabile e si sottrae a
definizioni militanti o ideologiche. È piuttosto un impegno a distanza che mai
confonde la solidarietà, la sorellanza, con l’identità. Un femminismo che non
cade nella trappola dell’ergersi a portavoce delle altre; tutt’al più scrive
per coloro che sono escluse dalla scrittura.
Assia Djebar: La vita di questa grande scrittrice e
cineasta algerina non è scindibile dai destini del suo tormentato paese. Assia
Djebar nasce nel 1936 a Cherchell, una piccola città costiera situata a circa
80 km da Algeri, da una famiglia appartenente alla piccola borghesia algerina. La
madre, discendente fiera di una famiglia aristocratica berbera, trasmette alla
figlia un vasto patrimonio delle tradizioni, legato alla trasmissione orale,
per via genealogica femminile. E Assia, già da piccola, è ben consapevole del
privilegio di cui gode rispetto alle ragazze della sua età, chiuse in casa e
velate a partire dalla pubertà. Dopo gli anni del collegio in Algeria, Assia
frequenta il liceo Fénélon a Parigi e sarà la prima donna algerina ammessa
all’École Normale Supérieure a Sèvres. Ma le vicende del suo paese interrompono
un percorso che sembrava prefigurarsi lineare: la guerra di liberazione degli
algerini contro il regime coloniale francese inizia nel 1954. Assia partecipa
allo sciopero generale degli studenti algerini nel 1956; a solo vent’anni
pubblica il suo primo romanzo La Soif, e abbandona la Scuola prestigiosa per
seguire il fidanzato, militante dell’FLN, nella clandestinità. Dopo
l’Indipendenza dell’Algeria, Assia Djebar ricopre la cattedra di Storia moderna
e contemporanea dell’Africa del Nord all’università di Algeri. Nei decenni
successivi Assia, che si definisce “femme en marche”, donna nomade; dagli anni
Sessanta fino ai primi anni Novanta, fino all’inizio della guerra civile in
Algeria, Assia Djebar vive e lavora a periodi alterni fra Algeri e Parigi. A
partire dal 2001, dividendosi tra Francia e Stati Uniti, insegna nel
Dipartimento di studi francese dell’università di New York, abbandonando la
cattedra che aveva precedentemente occupato alla Lousiana State University dal
1995. Muore il 6 febbraio 2015, a Parigi, all'età di 78 anni.
Segnalo infine un articolo
interessante, un sito da consultare e una tesi di laurea sul tema, consapevole
che questa scelta di libri non è assolutamente esaustiva del tema.
Il movimento femminista in Arabia
Saudita
Il corpo velato: http://www.donnamed.unina.it/velo.php
I femminismi nel Maghreb fra paradigmi
e prospettive di emancipazione femminile, Chiara Nardelli
Luisa Costalbano